la potenza nascosta del trauma
Recensione del libro “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio

In un gioco di specchi tra passato e presente, tra madre e figlia, l’Autrice racconta una storia di traumi e di non detti che si ripetono:
“Il disordine che trovo al mattino mi ricorda che non sono più sola. Amanda è tornata (…) La coperta è ammucchiata in un angolo, accanto al libro rovesciato sempre sulle stesse pagine”
Amanda, una studentessa fuorisede, torna a casa della madre (Lucia) al paese d’origine, spinta dalla necessità imposta dalla pandemia. Torna e si chiude in camera. Così comincia il percorso di avvicinamento di Lucia verso la figlia. Lucia vede i segnali di malessere, poi li nega, li minimizza e infine accende il suo sguardo verso Amanda, e nel farlo vede più chiaramente sé stessa.
Molte pagine più avanti, scopriamo che nella vita di Lucia c’è un segreto, che è rimasto seppellito nel silenzio.
C’è un segreto nella sua vita di ragazza che la figlia non conosce. L’autrice ci conduce nella scoperta del trauma, personale e collettivo, che Lucia ha vissuto a vent’anni. Nel terreno di famiglia c’era un campeggio, dove si è consumato un delitto. Il tabù familiare e della comunità viene vissuto in modi diversi dai protagonisti: paura, senso di colpa, scheletri e palizzate che coprono grovigli di emozioni non risolte.
Pian piano il lettore scopre quale sia stato il trauma e quale sia stato il ruolo di Lucia, e di una vecchia amica, Doralice.
Nella storia della psicologia c’è stato un lungo tempo in cui l’importanza del trauma è stata sottovalutata. Nei primi scritti di Freud è ben visibile la centralità degli eventi traumatici nello sviluppo del disturbo psicologico. Già nel 1893 Freud e Charcot collegavano i sintomi isterici alle memorie traumatiche non risolte. Tuttavia ad un certo punto Freud fa un passo indietro, che si rivelerà fatale per lo sviluppo della teoria del trauma: comincia a parlare di fantasie e conflitti inconsci, e così ridimensiona il ruolo del fatto reale, imprimendo una svolta agli studi successivi. Più volte, soprattutto negli anni che seguirono le guerre, la traumatizzazione post bellica ha imposto una nuova attenzione allo studio del trauma ma allo stesso tempo una consistente parte delle teorie psicologiche sminuiva l’importanza degli eventi reali sul disturbo[1].
Solo recentemente, invece, si è tornati su quella deviazione del percorso di ricerca e per farlo è stata recuperata la grande opera di Janet, che di fatto ha posto le basi per l’approccio più moderno al trauma. E’ come se nella storia della psicologia si fosse fatto un lavoro di riscrittura dello sviluppo dei disturbi proprio a partire dal riconoscimento dell’impatto potente – a volte devastante – del trauma sulla vita e sulla crescita delle persone.
In questi ultimi decenni si registra un riconoscimento trasversale e diffuso fra i vari approcci psicologici di questo concetto, il trauma, che ricongiunge un punto di vista psicologico con la visione biologica. Il corpo e la mente sono parimenti segnati dal trauma, che agisce anche sulle convinzioni, sui pensieri, e naturalmente ha un impatto inevitabile sul mondo emotivo. Questa nuova prospettiva ha profondamente rivoluzionato la psicoterapia, ed ha offerto un ponte teorico che connette le neuroscienze e apre nuove prospettive di ricerca.
Una diversa saggezza, quella della narrazione letteraria, forse non ha mai perso la consapevolezza della portata che hanno i traumi nella vita delle persone, come individui e come collettività. E certamente non ha mai perso la sua potenza taumaturgica, considerata la necessità e abilità umana del raccontare storie. E’ con la storia – una storia ricucita, recuperata, svelata, scoperta.. – che si comincia la ricostruzione della terapia e della guarigione.
Tornando al nostro romanzo, anche la protagonista, Lucia, aveva sottovalutato la portata del trauma nella sua vita. Lo aveva avvolto nel silenzio e lo aveva sminuito, ricorrendo alla difesa dell’evitamento.
Recuperare e ricostruire la storia intera (l’espediente narrativo del romanzo) è ciò che permette ad Amanda e poi a Lucia di muoversi verso la trasformazione.
Lucia poi è una sopravvissuta, qualcuno che è stato toccato dal trauma ma non era coinvolto in prima persona. Qualcuno che è più di uno spettatore ma non è la vittima. In questa particolare posizione è possibile che il trauma “assistito” venga trascurato, considerato meno importante rispetto a chi ha vissuto direttamente l’evento. Tuttavia, naturalmente, anche coloro che assistono ad un evento traumatico possono essere traumatizzati e portare i segni dell’evento. Lucia prova a nascondere anche a sé stessa l’importanza dell’evento vissuto e la sua ricaduta nella propria vita. Ma anche lei – finisce per ricordare – soffriva di sintomi post traumatici. “E io? A me non era successo niente. Ero stata colpita, come tutti, ma non di persona. E la mia amica era sopravvissuta. Eppure avevo perso la forza, i nervi si erano spezzati, azzerata la volontà. Passavo le ore sulle stesse due pagine senza trattenerle nella memoria”
Anche Lucia probabilmente – così come Amanda – potrebbe avere un sintomo post traumatico che non “urla”, che spesso rimane poco riconosciuto, sullo sfondo: la dissociazione.
Non potersi concentrare, rimanere davanti ad una pagina e non riuscire a pensare a volte nasconde una difesa radicale che la nostra mente attiva: quel distanziamento dissociativo che rende indifferenti, apatici.
E Amanda ha avuto un evento traumatico che la madre ha sottovalutato. Soltanto quando Lucia è in grado di ripensare al proprio trauma, raccontandolo alla figlia e poi cercando di trasformarlo, si rivitalizza l’energia di Amanda e nella mente di Lucia comincia a farsi strada l’idea che la figlia abbia sofferto di più di quanto abbia raccontato. Sembra che il trauma non elaborato, non dicibile, di Lucia si sia trasferito nella vita della figlia in modo del tutto inconscio. Come accade nel trauma transgenerazionale: al posto di una elaborazione c’è una ripetizione.
La reazione di Lucia all’evento accaduto alla figlia sembra proprio un congelamento dissociativo, come al tempo del primo trauma. Perché non ha raggiunto la figlia quando l’ha saputo? Perché non è mai andata ad incontrare l’amica quando anni prima il delitto fu consumato e Doralice fu l’unica superstite?
Lucia non ha risposta a queste domande ma il suo comportamento ci fa pensare ancora all’evitamento: una delle difese più diffuse per affrontare una grande ferita senza soccombere.
Il padre di Lucia, nonno di Amanda, la costringe ad accettare la donazione del terreno, e a prendersi la responsabilità di decidere se venderlo o tenerlo.
Attorno a questo terreno, che può essere coperto (insieme al trauma) da una colata di cemento, oppure può essere protetto, trasformato, restituito alla natura e rispettato, gira un altro passaggio del rapporto tra madre e figlia. E’ proprio Amanda che con altri attivisti si oppone alla costruzione di un complesso alberghiero, e rivendica il diritto alla natura e alla verità.
Nel cercare di decodificare il malessere della figlia, la madre disvela se stessa, è costretta a fare i conti con la storia sospesa e negata del trauma, e lo fa anche grazie alla spinta di suo padre.
E’ necessario connettersi alle figure di riferimento, alle radici (della natura e della famiglia) a quei genitori imperfetti che non hanno saputo proteggere, non hanno saputo parlare, per riuscire a raggiungere i ragazzi.
L’età fragile, quindi, non è solo l’adolescenza, ma è la maturità – quando i figli sono adolescenti e i genitori sono anziani- ed è anche l’età degli anziani che non trovano una collocazione dopo il lavoro e prima della morte. L’età fragile è quella che non entra in relazione, che non si connette, che non valorizza il legame e l’umanità come protezione contro il dolore, è l’età in cui si è soli.
[1] Sulla negazione dell’importanza del trauma nelle teorie psicologiche si rimanda a Bessel Van Der KolK “Il corpo accusa il colpo” 2015 Raffaello Cortina