Il viaggio del lutto tra dolore e ricostruzione

Nel film di Sorrentino “E’ stata la mano di Dio” si racconta la storia del lutto giovanile del registra, che ha perso entrambi i genitori all’età di 16 anni. E’ una storia di dolore traumatico, un dolore difficile da pensare, ma è anche la storia di una elaborazione attraverso l’arte, il viaggio, l’allontanamento da se stessi e infine il ritorno. In questa storia ci sono i poli del lutto, il movimento costante tra dolore e ricostruzione. C’è la ricerca di senso, il voler trovare nuovi significati e possibilità di elaborazione della perdita.

In una delle scene più significative del film, Fabietto dialoga con il suo mentore, regista di teatro, che gli chiede, incalzandolo quasi con violenza, se ha qualcosa da raccontare: alla fine di un lungo silenzio, Fabietto risponde urlando “quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”: parla del trauma del lutto dei suoi, e di questa impossibilità di accettare in un modo “adulto” ciò che è accaduto. Parla anche del tentativo di andare oltre, e il regista gli lascia un monito: “non ti disunire!” cioè non perdere il tuo posto, non perdere te stesso. Gli consiglia di non andare a Roma, ma di rimanere a Napoli per fare il cinema. Fabietto non ascolta il maestro e parte per il suo viaggio di allontanamento che lo riporterà a se stesso… proprio con questo film.

Questo spunto cinematografico ci aiuta ad introdurre qui il tema del lutto e la visione del processo del lutto come movimento ondulatorio che si sposta tra dolore e ricostruzione, e come motore personale di crescita.

L’esperienza della perdita è un incontro inevitabile nel viaggio umano.

Nel lutto di una persona cara ci si avvicina a ciò che è ineluttabile: la dimensione dura, concreta e reale della morte. Un limite invalicabile.

Le modalità con cui avviene la perdita influiscono molto nel vissuto del lutto.

Nella letteratura psicologica e nelle categorie diagnostiche psichiatriche negli ultimi decenni si sono sviluppati i concetti di “lutto traumatico”, “lutto complicato” e “prolungato”.

Una questione dirimente è stata proprio quella di definire il limite tra un lutto normale, fisiologico e un lutto patologico. Qual è il confine tra un dolore “normale”, anche intenso e disperante, e un dolore che presenta aspetti patologici, e che perciò richiede un intervento specialistico?

Dal “Disturbo da Lutto Persistente Complicato”, apparso nel 2012 nel DSM 5, si è passati di recente – nella versione TX del DSM 5 – al “Disturbo da lutto prolungato”. I criteri comprendono elementi legati alla durata e all’intensità della sofferenza, ma anche al “disordine sociale e dell’identità” che il lutto può comportare.

La sofferenza legata alla perdita di una persona amata a volte è seguita da un cambiamento importante nella vita di chi resta, e non solo per motivi pratici, legati al ruolo e alla presenza stessa del defunto, ma anche per ragioni più profonde legate all’identità.

La perdita di un figlio, ad esempio, priva il genitore (totalmente o parzialmente) del suo ruolo e di tutta una serie di comportamenti, pensieri e progetti, ma lo priva anche della prospettiva di poter continuare la propria linea esistenziale attraverso quel figlio.

Anche un marito che perde una moglie (o viceversa) deve ristrutturare tutta la propria dimensione di vita e identità, prepararsi ad esempio ad una vecchiaia diversa da quella che aveva immaginato assieme alla compagna. Questi cambiamenti naturalmente hanno dei risvolti anche nei rapporti sociali delle persone in lutto e non soltanto perché queste possono tendere all’isolamento per via del loro umore, ma anche perché frequentare o non alcuni amici e parenti può richiamare la presenza e l’assenza della persona che non c’è più. Per rievocarla o per evitare di sentirne più aspramente la mancanza la persona che resta può cambiare le relazioni con gli altri attorno a sé.

Molti di questi “adattamenti” che seguono alla perdita si possono considerare parte di un processo fisiologico di lutto.

Ma dov’è il limite tra fisiologia e patologia del lutto?

La risposta a questa domanda è complessa ed è cambiata negli ultimi decenni, nel senso che le teorie psicologiche sul lutto hanno visto una importante evoluzione (soprattutto a partire dagli anni 80 e 90) che ha portato a riconsiderare la valutazione di alcuni sintomi, che oggi si possono leggere sotto una luce nuova.

Anche in Italia ci sono studiosi di riferimento in questi nuovi approcci. Maria Luisa De Luca[1] ha fondato a Roma un gruppo di ricerca e intervento sul lutto (Grief &Growth, Lutto e crescita, www.luttoecrescita.it) e ha messo a punto un modello di intervento sul lutto complicato[2] sulla base delle nuove teorizzazioni. Le considerazioni teoriche che seguono fanno riferimento a questo gruppo di lavoro.

Una concezione “classica” del lutto vedeva il processo di elaborazione come caratterizzato da fasi. Già lo stesso Freud in “Lutto e Melanconia” e successivi AA hanno tentato di identificare alcuni passaggi tipici che il processo del lutto comporterebbe, fino ad una “soluzione”, ad un distacco, ad una chiusura del rapporto interno con il defunto. Per Freud il distacco dall’oggetto d’amore che era scomparso segnava la possibilità di disinvestire e reinvestire su altro l’energia libidica.

Anche altri Autori, come Bowlby (almeno in una fase iniziale della sua teorizzazione) postulavano la necessità di una chiusura, di un distacco come soluzione del lutto.

In quest’ottica, alcuni comportamenti come il “parlare con il morto” (senza delirio o allucinazione), il mantenere rituali e abitudini “dedicate” alla persona che non c’è più – anche per molti anni – venivano considerati come indicatori di un processo non risolto, e patologico. Non si era realizzato il distacco dalla persona morta.

Negli ultimi decenni, grazie ai lavori di alcuni eminenti studiosi del lutto, la comunità scientifica ha riconsiderato il processo del lutto non più come un percorso che si conclude con un distacco, ma che può evolvere in un mantenimento non patologico del legame.

Dennis Klass[3], forse il maggiore studioso di questo tema, ha pubblicato nel 1996 un testo fondamentale che si intitola proprio “Continuing Bonds” (“I legami che continuano”). In un lavoro successivo Klass definisce diversi modi per mantenere il legame usati nella cultura occidentale: sentire la presenza della persona scomparsa, parlare con lo scomparso, viverlo come guida morale e parlare di lei/lui ad altri.

Questi processi di continuità relazionale vengono considerati parte di un processo fisiologico, adattivo nell’elaborazione del lutto. Non è perciò “patologico” continuare in varie forme il legame. Non è necessario arrivare al distacco o al disinvestimento così come postulato da Freud e da altri modelli.

ML De Luca inoltre riprende il Modello Duale di Margaret Stroebe (2001) che parla di due posizioni. Una orientata alla perdita e al dolore, e l’altra orientata alla ricostruzione. Il lutto, dunque, non è più un processo divisibile in fasi ma viene inteso piuttosto come un lavoro “oscillatorio” tra posizioni diverse, focalizzate sul dolore della perdita o sulla riorganizzazione della vita e la ridefinizione dell’identità. (cfr figura tratta da Stroebe e Schut 1999):

Questi due processi di coping comportano stress ed ansia e si alternano dinamicamente in un lutto fisiologico. La persona oscilla tra questi poli o anche non affronta e si “distrae” a seconda delle risorse personali.

Tra le risorse che vengono considerate ci sono l’appartenenza ad una comunità che condivide e partecipa, e la spiritualità. Sembra che tra i fattori protettivi che favoriscono un lutto sano ci siano l’attaccamento sicuro (De Luca 2003) e un tratto definito Hardiness (“robustezza”) cioè “l’essere impegnati nel trovare uno scopo significativo nella vita, la convinzione di poter influenzare l’ambiente che ci circonda, e di poter imparare e crescere sia dalle esperienze positive sia da quelle negative” (De Luca 2010).

Le persone con attaccamento sicuro sembrano essere in grado di utilizzare il sostegno sociale e di trasformare le esperienze negative anche in occasioni di aiuto per gli altri, e spesso anche in occasioni di apprendimento e di crescita.

Il modello del “continuing bond” e il modello duale del lutto guidano il terapeuta verso una visione del processo di elaborazione che faciliti questi processi, e li consideri parte integrante del lavoro clinico sul lutto.

Nella pratica clinica, infatti, spesso si incontrano persone che soffrono per un lutto non risolto, e non riescono a dare senso e nuova ricostruzione alla loro vita con questo vuoto incolmabile. Il modo con cui si accompagnano i pazienti in questo percorso, può essere influenzato notevolmente dalla teoria di riferimento del terapeuta.

Devo questa nuova visione del lutto – e le sue ricadute nel mio lavoro clinico – a Maria Luisa De Luca, e all’associazione “Lutto e crescita” di cui faccio parte.

Anni fa incontrai una donna che chiamerò Lucia. A 63 anni, due figlie e il lavoro nel negozio del marito non riusciva a sentire più interesse per nulla. La sua vita si era tinta di nero da quando era scomparso suo marito, tre anni prima. Per tre lunghi anni Lucia aveva “congelato” la sua reazione di perdita: piangeva ogni giorno ricordando il marito, non riusciva a spostare i suoi oggetti nella casa, vestiva sempre di nero e aveva spesso incubi e immagini dell’ultima fase della vita del marito. Vedeva lui sofferente e sfigurato a causa della malattia e non riusciva ad accedere ai ricordi positivi dei lunghi anni passati insieme.

Sentiva che la sua vita non aveva più senso e non riusciva a frequentare i vecchi amici perché sentiva ancora di più la mancanza del marito. Si era come “bloccata” al momento in cui lui era venuto a mancare.

Secondo i criteri del DSM, dopo tre anni dalla perdita e dati i sintomi, rientrava pienamente nel quadro del Disturbo da lutto prolungato. Secondo il modello duale, era decisamente ferma nel polo della perdita e non c’erano quasi tracce di ricostruzione o nuovi adattamenti positivi.

Nel lavoro sulle immagini traumatiche (affrontato con l’EMDR) il processo naturale del lutto si è sbloccato e Lucia ha potuto elaborare gli aspetti traumatici della perdita. Avere visto il marito trasfigurato e molto sofferente aveva reso il suo dolore non pensabile. Potere “sciogliere” questo dolore, nel senso di toccarlo nuovamente, esprimerlo, descriverlo, elaborarlo, le ha consentito di andare oltre il dolore stesso. Dopo l’elaborazione Lucia ha cominciato a ricordare molti momenti felici e anche di tenerezza durante la malattia, e ha ripreso a vivere, incontrare persone e ha anche indetto un premio dedicato alla memoria del marito nell’ambito della sua attività professionale.  Ad un certo punto del lavoro con l’Emdr, Lucia ha esplicitato la sua resistenza al “lasciare andare” il trauma: pensava che questo lasciare andare il ricordo negativo potesse rappresentare una separazione ulteriore dal marito, la perdita di qualcosa che la teneva unita a lui.

Per molte persone l’elaborazione del lutto si “congela” perché ci sono dei ricordi insopportabili, oppure perché andare avanti assume il significato di una ulteriore separazione dal defunto.

Temono che smettere di soffrire li separerà da loro, e non si “concedono” di continuare a vivere, e ancor meno, di sentire gioia.

La possibilità di recuperare ricordi felici vissuti insieme alla persona che non c’è più, e la possibilità di ricordare e celebrare quella persona anche con rituali e gesti simbolici dedicati diventa un modo per ricostruire “con”. Anche l’idea di poter conservare la relazione con la persona morta, nel senso di poter avere ancora un dialogo e sentirne la presenza è un pensiero che favorisce l’elaborazione del lutto e la separazione intesa come trasformazione del legame.

La visione del lutto come processo dinamico di trasformazione del legame consente al terapeuta di guidare il paziente verso nuove forme di conservazione e continuazione della relazione con la persona che non c’è più. Al di là dell’aspetto spirituale o religioso, che può offrire altri canali per continuare tale relazione, vi è anche un aspetto psicologico legato alla memoria dell’ “essere-con” e alla interiorizzazione dell’altro, che continua nel presente. Certamente il lutto segna la perdita di una persona, ma può non significare la perdita della relazione con lei/lui: più forte è stato il rapporto tra la persona che resta e quella che se n’è andata, e più saranno possibili forme di interiorizzazione dell’altro, della sua presenza e del dialogo con lui/lei che vanno valorizzati, riconosciuti e tenuti vivi nell’interiorità.

Questa conservazione del legame non interferisce con la continuazione della vita e la ricostruzione o il reinvestimento su altro, ma tesaurizza, valorizza ciò che è stato, trasformandolo in un bagaglio che arricchisce il senso della vita.


[1] La Prof.ssa Maria Luisa De Luca, Psicologa – Psicoterapeuta – Analista Transazionale Didatta, è docente stabilizzata di Psicopatologia presso l’Istiituto di Psicologia della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana. La prof.ssa De Luca insegna il corso di Psicopatologia dello Sviluppo, Psicopatologia Generale, Psicologia dell’emergenza e degli eventi critici, Laboratorio di Psicopatologia dello Sviluppo, Psicopatologia nella spiritualità e formazione.

[2] De Luca, M. L. (2010). Lutto traumatico e crescita post traumatica: modelli teorici e linee di intervento. Psicologia, Psicoterapia e Salute, 16, (3), 291-322.

[3] Klass, D., Silverman, P.R., Nickman, S.L. (1996). Continuing bonds: New understanding of grief. Washington, DC: Taylor & Francis.