Etica terapeutica e moralità ossessiva

I pazienti con tratti e modalità ossessive pongono – a sé stessi ed al terapeuta – la questione della visione morale della vita. Il loro senso di colpa, e l’iper-responsabilizzazione che li caratterizza, possono diventare paralizzanti nel quotidiano. Il terapeuta si troverà ad incontrare un mondo pieno di limiti, di necessità, di vincoli che nella mente del paziente sono imprescindibili.
Viene proposta qui una riflessione su morale ed etica – prendendo come riferimento le definizioni spinoziane descritte da Deleuze – per esplorare il sistema personale di una paziente ossessiva, e vedere come nel lavoro clinico sia importante mantenere l’accesso alle questioni esistenziali, “filosofiche”, che i pazienti stessi ci pongono. Nella visione del problema utilizzeremo un “incrocio” teorico tra punti di vista confrontabili, che aiutano a focalizzare diversi aspetti della questione. Il punto di vista filosofico ci aiuterà a distinguere tra morale ed etica, guidati da Spinoza. Nel cognitivismo troveremo una accurata descrizione dei processi di pensiero dell’ossessivo, ma nell’approccio analitico lacaniano – guidati da Recalcati – proveremo a rintracciare quale debba essere la postura del terapeuta di fronte all’ossessivo e in che modo questa nevrosi interroghi il sistema della cura. Infine, vedremo come nel trattamento sarà necessario passare al piano dell’esperienza, e in questo passaggio utilizzeremo uno strumento derivato dall’Analisi Transazionale.
Spinoza e l’Etica
Nel pensiero di Spinoza si trova una interessante possibilità di coniugare concreto ed astratto, empirico/esperienziale e teorico, e per questo possiamo usare il filosofo per essere guidati nei temi etici che la clinica ci pone.
Spinoza intendeva realizzare un’ontologia ma chiamò etica la sua opera. Perché? Spinoza distingueva tra Essere ed enti. L’Essere viene considerato come la sostanza infinita ed assoluta. Per sostanza si intende qualcosa che esiste in sé, cioè non ha bisogno di altri elementi o concetti per esistere. Esiste autonomamente, è ciò che “è in sé e per sé si concepisce”. Di fatto, in Spinoza coincide con Dio, e Dio coincide con la Natura: “Deus sive Natura”. Gli enti invece sono modi di essere non assoluti della sostanza, e sono osservabili e mutevoli, cioè sono le manifestazioni particolari della Natura e dell’Essere.
“la sostanza di Spinoza può essere paragonata ad un oceano sconfinato ed eterno; gli attributi, che ne costituiscono l’essenza, all’estensione acquatica; i modi infiniti al movimento incessante del mare; i modi finiti alle varie onde. (…) L’oceano permane in eterno pur continuando incessantemente a specificarsi nella serie infinita delle onde.”[1]
La morale si occupa tradizionalmente di valori e di ciò che è Bene, inteso come qualcosa di superiore all’esistente, da cui discende il giudizio. L’uomo ispirato al Bene tende a realizzare tale essenza superiore (ispirata all’Essere), nella consapevolezza di non poterla mai raggiungere, poiché non si comporta come un essere razionale.
Nel concetto di morale si definisce un Bene assoluto a cui tendere come fine (impossibile).
Ma quante volte nella storia ciò che era Bene o Male è stato ridefinito? Chi definisce questa “verità”? Chiaramente questa visione morale implica l’esistenza di una Verità assoluta e di una Autorità che la detiene.
Spinoza afferma che le essenze generali sono idee confuse, astratte. Per Spinoza non si può giungere all’Essere ma esistono le esistenze singolari, gli enti, e non c’è essenza a prescindere da questi.
Il punto di vista della morale è agire secondo un valore ed essere sottoposti a giudizio. Il punto di vista dell’etica è: “di cosa sei capace?”, “cosa ti è possibile fare?”. Gli esseri sono disposti secondo una scala quantitativa di potenza. “La potenza non è ciò che voglio, è ciò che ho”(Deleuze, p 81).
Questo modo di concepire l’etica ci pone la questione di non poter operare con dei valori predefiniti di cosa è giusto o sbagliato. Solo la dimensione delle possibilità sperimentate, vissute, può realizzare la potenza del soggetto. Come declinare questi concetti nella clinica? Il punto di vista del terapeuta può essere etico e non morale, in senso spinoziano? Ma prima ancora, come viene vissuta dai pazienti la questione della moralità o della razionalità delle scelte e dei comportamenti?
Entrando nella dimensione del paziente, nella problematica dell’ossessivo anche il solo pensare è carico di responsabilità e senso di colpa, in un sistema morale predefinito che diventa una gabbia per la libertà della persona.
Sintomo e dimensione morale. Il caso di Gilda
Gilda, 24 anni, ha bloccato sul nascere da alcuni anni il suo percorso di studi all’università e si è chiusa in una profonda depressione. La maggior parte del tempo vive in casa, dormendo durante il giorno e guardando serie televisive durante la notte. Ha interrotto quasi tutti i suoi rapporti sociali al di fuori della famiglia.
Lunghe parti della giornata sono riempite da rituali in bagno o in altre stanze (allineare gli oggetti, cercare linee ed angoli regolari per poter svolgere normali attività quotidiane di igiene e cura di sé). La mente di Gilda sembra costantemente impegnata nel pensare ossessivamente a contenuti riguardanti le sue relazioni passate e quelle attuali, anche familiari. In particolare, Gilda ipotizza e immagina con il pensiero tutta una serie di eventualità di risposta a suoi comportamenti. Ad esempio, immagina di parlare con una vecchia amica e di dirle le ragioni per cui non si è fatta più sentire e ipotizza varie risposte possibili dell’amica. Poi modifica la sua comunicazione, la semplifica, la rende più sintetica o più cinica e immagina le reazioni dell’amica e così via… in questa maniera percorre mille strade possibili, in cui finisce sempre per concludere allo stesso modo: non riprenderà mai i contatti con quella persona perché non si sente degna dell’attenzione e della pazienza dell’altro.
Se immagina che l’amica la perdonerà e non si arrabbierà diventa quasi peggio per lei, poichè dovrà fare i conti con il senso di colpa, la sua “emozione fondamentale” da cui non riesce a fuggire.
Se immagina invece che la relazione si possa “riparare” comunque “sa” che lei stessa inevitabilmente deluderà – prima o poi – l’altra persona, e così per evitare questa delusione rimane ferma in una sorta di astensione totale. Spesso tutto questo pensare si sostituisce all’agire, quasi in modo assoluto.
Naturalmente Gilda non sta bene in questo universo rarefatto, non riesce a spegnere dentro di sé il desiderio di relazione, e per questo nel blocco continua a tormentarsi.
In questo ripetersi di potenzialità, in una catena infinita di ragionamento, di illusioni e delusioni, Gilda riempie il vuoto in modo costantemente laborioso ed insoddisfacente.
Cosa spinge Gilda a tentare l’impresa di astenersi dal mondo delle relazioni? Da cosa si protegge? Di cosa ha paura? Le risposte che finora Gilda ha trovato sono nel suo sistema di regole “morali”, cioè nella sua necessità di non ferire gli altri, di non deluderli. La convinzione che la guida è quella di essere inadeguata a mantenere una relazione, di amicizia o di amore, incapace di gestirla, di sapere cosa dire, di capire quale frequenza di contatti avere, come stare con la mente nel tempo della relazione.
L’unica fuga è una continua esplorazione del mondo delle possibilità.
“In una morale, troverete sempre la seguente operazione: se dite e fate qualcosa, poi dovrete sottoporlo a un giudizio. E’ il sistema del giudizio. La morale è un sistema di giudizio, anzi un duplice giudizio: è giudicare ed essere giudicati. (…) Il valore è l’elemento fondamentale del sistema del giudizio.” (Deleuze p 79)
Nell’etica invece non si giudica mai. (…) Il punto di vista di un’etica è: di cosa sei capace? Cosa ti è possibile fare?”
Nel sistema di Spinoza le possibilità, le espressioni individuali di potenza sono ciò che il corpo davvero fa e può fare. Le potenze in atto. L’esperienza delle cose – si potrebbe dire – le rende possibili, ed ogni individuo è ciò che gli è possibile. L’individuo in questa realizzazione della sua potenza compone nuovi rapporti, e c’è una positiva trasformazione ed evoluzione quando queste composizioni si attuano. C’è una crescita della persona e del suo benessere.
E’ come se Gilda non potesse spostarsi dal piano della morale a quello dell’etica, intesa in senso spinoziano. Può cercare di muoversi all’interno delle sue regole morali sulle relazioni ma non può uscire dai vicoli ciechi che crea, esplorando le possibilità solo nella sua mente.
Le possibilità spinoziane non sono nel mondo immaginario o simbolico, sono necessariamente concrete e descrivono principi etici se creano delle “buone” composizioni, intese come relazioni che favoriscono affetti positivi e crescita nelle persone.
Gilda rende impossibile a sé stessa questa esperienza spinoziana dell’etica: di cosa sarà capace? Cosa potrebbe accadere a lei se veramente rispondesse all’ennesimo messaggio dell’amica che la cerca? O se addirittura fosse lei a cercarla?
“Di che sei capace? Significa fare esperienza delle proprie capacità. Si tratta qui di esperienze concrete di vita: sperimentare le proprie capacità nel momento stesso in cui le si usa, senza conoscenze preliminari.”(Deleuze, p.129)
In molti pazienti ossessivi – che sono assorbiti dalle necessità morali e dall’iper-responsabilità – è impossibile passare dal piano della morale a quello dell’etica. Per farlo, dovrebbero entrare nell’esperienza.
Il pensiero, invece, rimane legato circolarmente a sé stesso e l’azione si riduce ad un rituale.
“Se riuscirò ad allineare gli angoli degli oggetti con quelli delle pareti, allora potrò studiare”. E naturalmente l’angolo non è mai preciso, non sono mai tutti gli oggetti, il controllo non è mai totale… l’azione di studiare non viene svolta. “Sarebbe uno studio perfetto, fatto con ordine, ma sarà possibile solo quando tutto sarà nella giusta posizione”.
Il perfezionismo degli allineamenti o della pulizia nelle compulsioni insegue l’illusione di poter fare le cose secondo una morale, che aiuti la persona a non sentirsi in colpa. La colpa è il sentimento- motore dell’ossessivo, quello che cerca invano di evitare.
La ricerca di una regola esterna, di un criterio che oggettivamente definisca il Bene, nel paziente ossessivo diventa il sintomo compulsivo (allineamento, pulizia, ordine) nel suo assurdo ripetersi.
Incroci teorici sui meccanismi ossessivi
Molti Autori negli ultimi decenni hanno evidenziato il tema del senso di responsabilità ipertrofico nell’ossessivo. La responsabilità ipertrofica viene definita come “credenza di possedere un potere speciale nel produrre e prevenire personalmente delle conseguenze negative importanti” (OCCWG,1997). I pazienti ossessivi tendono a vedere la responsabilità come senso del “dovere” o delle “regole”. Ma “responsabilità” deriva dal latino “responsus-respondere”, e significa “abilità di rispondere, cioè la capacità di essere presenti e di rispondere agli eventi come sono realmente. Fa riferimento, dunque, all’essere in contatto con ciò che accade, quindi – potremmo dire – più vicini all’esperienza che al concetto astratto di ciò che è giusto. E’ la capacità di valutare, constatare le conseguenze di ciò che si fa, concretamente. E’ un senso realistico delle conseguenze, diverso dal senso di colpa accentuato dell’ossessivo, che si riferisce al danno che anche solo col pensiero può fare. Per l’ossessivo, infatti, vi è una fusione di pensiero ed azione, per cui se ha un pensiero intrusivo indesiderato, è moralmente equivalente a mettere in atto l’azione pensata.
Parimenti, un pensiero di poter arrecare un danno, fa aumentare il rischio che tale danno accada realmente. (Didonna)[2].
Nell’ossessivo, dunque, una sorta di primato e di concretezza del pensare rimanda ad una moralità del pensiero, dove il Bene ed il Giusto sono già dati, e con essi ci si deve misurare. Fin qui abbiamo seguito una visione cognitivista del sistema ossessivo.
Anche nel pensiero di Lacan l’ossessione va intesa secondo una dinamica di necessità e di oppressione, di non-libertà. L’ossessivo – come un servo col padrone – si sente nella posizione di colui che è vittima di qualcun altro: del dovere, della necessità, del “padrone” di turno. Ciò che l’ossessivo non coglie è il potere che esso stesso può avere, essendo il padrone dipendente da lui. In un certo senso, il “padrone” dell’ossessivo è il pensiero, di cui il paziente subisce la tirannìa. Nella visione lacaniana l’ossessivo ha un rapporto con il suo desiderio che è proibito, è impedito dalla Legge e perciò si estingue e viene prosciugato “Nella misura in cui egli prova, nelle vie che gli sono proposte, ad accostare l’oggetto, il suo desiderio si attutisce, fino all’estinzione, alla sparizione. Direi che l’ossessivo è un Tantalo..”.(Lacan, Seminario V).
Già per Freud i due principali meccanismi di difesa dell’ossessivo sono l’annullamento e l’isolamento dell’affetto. Il pensiero, e la ricerca di ciò che è giusto, sostituiscono il sentire e congelano il desiderio.
L’ossessivo, dunque, secondo Lacan è dentro la dinamica hegeliana del servo-padrone[3].
Il servo esiste in quanto esiste il padrone, e viceversa. Se il servo potesse uccidere il padrone – cosa che desidera, nell’illusione di liberarsi – non gli rimarrebbe che il vuoto di identità e consistenza.
L’ossessivo è servo del proprio desiderio dell’Altro e allo stesso tempo se lo deve proibire poiché è contro la Legge. Continua ad oscillare tra il desiderio e l’odio dell’Altro e si difende “sterilizzando” ciò che sente, sottoponendolo ad un tale ordine, controllo ritualizzato e freddo da smarrire ogni emozione. “L’angoscia per la morte, per la caducità, per la transitorietà di tutte le cose, per l’impossibiità di governare il reale della vita – l’eccesso della pulsione – è al cuore del fantasma ossessivo” [4] Egli è chiuso in sé stesso e non domanda niente all’Altro, teme la vitalità dell’Altro e in fondo intende distruggerne il desiderio. Come si traduce questo nella clinica? Il paziente ossessivo pretende la fissità e la precisione del setting e i mutamenti, i segni di vitalità dell’analista lo turbano, possono scatenare rabbia e invidia. L’imprevedibilità delle relazioni può scatenare maggiormente il sintomo. Ed ecco l’angoscia di Gilda di non poter controllare ciò che accade tra lei e gli altri e la sua distruttività verso l’Altro. E’ più rassicurante “congelare” tutto.
L’ossessivo combatte il suo sentire e se ne difende in tutti i modi. Costruisce interi sistemi per tenersi lontano da ciò che desidera. Gilda si inventa una logica, una “moralità” che giustifica il suo isolamento da tutto ciò che amerebbe nelle relazioni. Il mantenimento di questa distanza, però, ha il costo di una sottomissione ai pensieri ossessivi, ai rituali e alle compulsioni, fino al blocco e alla depressione.
Come sollecitare la vitalità dell’ossessivo?
Nella visione dell’Analisi Transazionale emerge un’indicazione terapeutica utile nel contributo di Paul Ware[5] : “gli Ossessivo-Compulsivi si sottomettono alle regole e alle leggi, si mostrano esageratamente coscienziosi e sono i giudici più critici e severi di se stessi. (…) La loro spinta principale è il “sii perfetto”, accompagnata frequentemente dalla spinta secondaria “sii forte” o “sforzati”. In una fase precoce della loro vita hanno ricevuto l’ingiunzione “non essere un bambino” a cui si adattano negando i propri sentimenti. Una ulteriore ingiunzione ricevuta è “non sentire” oppure “non sentire certe cose”, specialmente “non sentire gioia”.
Nel sistema delle “porte della terapia” l’A. propone per l’ossessivo di “entrare” attraverso la porta aperta del pensare, senza cadere nella trappola di andare sul comportamento, per raggiungere la porta bersaglio del sentire.
Per questo in terapia è facile comunicare con gli ossessivi, che dettagliano e descrivono, ma non è facile ottenere risultati soddisfacenti se non “togliendo potere” al pensiero controllante e riuscendo ad andare oltre il blocco ed il congelamento della vitalità.
Per Gilda non avere avuto voglia di uscire con una sua amica equivale all’averle fatto del male, all’averla trattata male e al meritare la vergogna e la punizione dell’ostracismo. Lungi da lei l’idea di verificare quale veramente sia stata la conseguenza del suo non aver voglia (a volte addirittura non espresso, per evitamento). Non fa esperienza di sé in relazione con l’altro e di sé come responsabile di una scelta, o meglio si illude di non farla. In questo modo pensa di evitare responsabilità e colpa, e ottiene isolamento. Agire e pensare secondo una morale (un’idea di Bene e di Giusto) è l’aspirazione di Gilda, che non vuole fare del male a nessuno. Ritrarsi dalle relazioni è l’unica soluzione che lei trova per evitare il male che potrebbe fare all’altro, un senso di colpa ancora più grande di quello che le procura il suo non esserci. “E’ meglio che non rispondo, perché so già che anche se dovessimo riprendere a vederci, prima o poi la deluderei, e sarebbe peggio. Mi conosco, non so fare, dire e provare quello che è giusto fare, dire e provare nelle relazioni di amicizia”: così Gilda spiega la sua scelta di astenersi. Un imperativo morale preventivo.
Morale, etica ed esperienza
Cosa ci dice il caso di Gilda a proposito della questione morale ed etica nel lavoro clinico? Probabilmente ci parla del rischio di eleggere una morale dell’agire dove sia predefinita o scontata l’idea di ciò che è Bene o Giusto. E ci mette anche in guardia dal pericolo dell’iper-responsabilità, anche del terapeuta, che può creare – come fa Gilda nella sua mente – un’idea non verificata di ciò che va bene nella relazione con il paziente, o di ciò che va bene “per il paziente”.
Il caso di Gilda ci mostra come il tentativo di definire il Bene ed il Male senza fare i conti con l’esperienza, con l’Altro, con il mondo fisico e relazionale, con le possibilità del corpo (direbbe Spinoza) rischia di portare ad una trappola di “moralità”, o di immobilismo e isolamento. Forse per ogni paziente e per ogni sua tematica bisogna con lui, con il paziente, porsi il problema etico e lasciare che la persona scelga in quale direzione agire (o non agire) per verificare le proprie possibilità, senza dare per scontato che un criterio morale generale possa essere valido per una persona in una situazione.
Gilda può uscire dal dedalo delle possibilità e delle ipotesi solo mentali sospendendo il giudizio morale e attenendosi a ciò che nel momento dell’esperienza si verifica tra lei e le persone con cui entra in relazione. La sua può diventare una ricerca etica di una direzione, dove per ogni relazione potrà concedersi piano piano di sentire e pensare senza avvertire il peso morale che le azioni (non i pensieri o i sentimenti) hanno. Sperimentare da parte di un’amica una reazione diversa da tutte quelle che si era immaginata, l’aiuterà a mettere in dubbio il suo sistema, e soprattutto sarà l’accettazione del suo sentire e pensare come fenomeno che accade, e non come colpa, che la porterà a trovare vie d’uscita dalla sua trappola ossessiva.
Gilda comincia a stare meglio quando si lascia sentire il dolore, il desiderio, la paura nelle relazioni con le amiche. Migliora quando rinuncia all’illusione di controllare la sofferenza ritirandosi in un mondo in cui tutto è corretto perché nulla avviene, poiché ogni azione può portare al dolore dell’altro e l’unica soluzione è l’evitamento. Fa esperienza, si mette in gioco, si permette di sentire, infine, anche la gioia.
In terapia sarà necessario fare dei passaggi di consapevolezza per comprendere come mai il pensiero per Gilda sia diventato il rifugio e anche l’unico ambito praticabile. Gilda collega la sua iperresponsabilizzazione e la preoccupazione di fare del male agli altri nelle relazioni al suo rapporto con la madre. La grande fragilità della madre ed il rischio di ridefinizione simbiotica di ogni sua affermazione o comportamento hanno finito per produrre in Gilda una sorta di congelamento dell’azione e dell’espressione dei sentimenti.
Nel rapporto con il padre ci sono delle possibilità in più ma anche una colorazione depressiva che appartiene anche al vissuto di Gilda. L’esperienza di un viaggio con un’amica rimette Gilda in contatto con i suoi desideri, e in un primo tempo peggiora il senso depressivo del fallimento e dell’impotenza. Tuttavia si accende inesorabile una piccola fiammella di emozione e desiderio, e su questa – sulla possibilità di tenerla accesa e produrre altre azioni – si incentra la terapia.
Il sentire prima disturbante piano piano diventa un alleato e una bussola. Così Gilda procede più avanti, con fatica ma nella direzione di scelte più sintoniche ed armoniche con se stessa. Tuttora Gilda sfida paure e difese ad ogni azione, ma sono scomparsi la maggior parte dei rituali e l’umore è sensibilmente migliorato.
Ciò che spesso fa paura ai pazienti ossessivi – ed agli ansiosi in genere – è proprio l’imprevedibilità dell’esperienza, che inevitabilmente sfugge ad ogni forma di controllo.
Il controllo è il meccanismo che negli ossessivi – e ancor più in coloro che presentano anche delle compulsioni – sostituisce di fatto l’ansia libera percepita come tale. Spesso gli ossessivi non riferiscono di sentire ansia, poiché essa è “legata” nel pensiero e/o nelle compulsioni.
L’illusione di poter controllare ciò che accadrà, ciò che potrebbe accadere, è portata fino all’estremo, fino all’idea di essere “preparati”. “Se sarò preparato, non mi potrà accadere nulla di male” che si traduce con “se avrò pensato tutto quello che può succedermi, non potrò essere sorpreso e saprò come reagire”.
Una tale illusione di controllo è ancora più perniciosa se trasposta nell’atteggiamento del terapeuta che pensa di sapere cosa accadrà in una psicoterapia, o dove dovrà giungere il percorso con un paziente. La terapia – anch’essa – è un’esperienza, e ogni ambizione di eccessivo controllo toglie spontaneità ed autenticità. Ciò che accade è dentro la cornice (quella si, controllata) del setting, del contratto e della deontologia del terapeuta. In questo senso abbiamo proposto il caso del paziente ossessivo come metafora della rigida postura morale del terapeuta.
Nel caso di Gilda, la terapeuta ha sentito il rischio del congelamento della relazione nella rigidità con cui la paziente interpretava le regole del setting, ed una certa ripetitività dell’agire in seduta. Con lei è stato particolarmente importante “vivificare” il momento della seduta inserendo nuovi atteggiamenti e domande nelle consuetudini, mostrandosi flessibile e disponibile verso la novità, aperta verso l’ambivalenza, diversa da ciò che lei “prevedeva” nella sua mente.
L’autenticità e l’imprevedibilità nel momento dell’incontro hanno agito probabilmente come un facilitatore del cambiamento.
Nella vita del paziente, come nel lavoro del terapeuta, pensare ad un Bene morale senza l’Etica dell’esperienza, rischia di essere un percorso sterile di prosciugamento o – all’estremo – un pericoloso adattamento ad una “finta” condotta morale.
La paura del terapeuta di fronte ad un nuovo incontro può forse assomigliare alla paura di un paziente ossessivo o semplicemente ansioso di fronte ad una nuova esperienza. Ogni illusione di totale controllo conduce fuori strada. L’esperienza è aprire i pori, le orecchie, gli occhi a tutti i linguaggi che arrivano, soprattutto al registro corporeo.
L’esperienza ed il corporeo sono le strade che conducono alla via d’uscita nell’ossessivo, che nel sintomo resta nel pensiero e si avviluppa intorno ad esso.
Il passaggio al sentire, dunque, per rintracciare l’ubicazione corporea del desiderio è anche qui la via d’uscita. Nel sentire e nello sperimentare tutto è possibilità, secondo il linguaggio di Spinoza/Deleuze, e necessariamente lo sguardo del terapeuta deve essere etico e non morale, aperto e senza modelli pre-confezionati di ciò che è sano.
Come il paziente ossessivo si può spostare da una dimensione morale ad una di respons-abilità, così per il terapeuta è necessaria una dimensione etica della respons-abilità nel rapporto con il paziente. L’appiglio stabile con i propri sistemi di riferimento non deve produrre modelli ed etichette di ciò che il paziente è/sarà o di ciò che è Bene per lui/lei, piuttosto deve produrre un continuo esercizio a porsi domande, senza avere paura di dubitare.
Il paziente ossessivo rifugge il dubbio come il suo peggior nemico, pensa che sia intollerabile. Il terapeuta esercita continuamente il dubbio, e lascia che il sentire ed il pensare dialoghino tra loro, con l’imprescindibile messaggero che è il corpo, nell’esperienza della terapia.
Conclusioni
Con una mappa eterogena, e diversi punti di riferimento, abbiamo cercato di fare luce sulla questione morale/etica in psicoterapia e sul lavoro con i pazienti ossessivi. Dal discorso filosofico di Spinoza abbiamo ottenuto una luce sui concetti di morale ed etica. Dalla descrizione cognitiva del disturbo ossessivo una chiarificazione sul rapporto del paziente con il pensiero e la responsabilità. La visione lacaniana fa luce sul rapporto dell’ossessivo con l’Altro, con il desiderio e con la domanda/non domanda di terapia. Da ciò discende una fondamentale postura dell’analista di fronte alla distruttività mortifera dell’ossessivo, spaventato dalla vitalità e dall’imprevedibilità. Infine, l’Analisi Transazionale proietta sul concreto del lavoro clinico il passaggio dal pensare al sentire, all’esperienza sentita (non agita!) che tanto somiglia alla dimensione etica e alla vitalità, ponendosi come un antidoto al primato del pensiero.
Tale esclusivo primato, radicalizzato nel disturbo ossessivo come nella rigidità del terapeuta “chiuso” dentro un unico sistema interpretativo, si oppone alla dinamicità della vita vissuta e della sua intrinseca imprevedibilità ed energia con il rischio di ridurre ad una morale l’Etica della cura.
[1] Abbagnano
[2] Didonna F
[3] Secondo Recalcati: “Lacan che si è formato alla dialettica hegeliana con Kojève, lettore straordinario di Hegel, assume l’idea hegeliana per cui il soggetto non è una sostanza che si autofonda, ma una realtà desiderante che dipende dalla dialettica del riconoscimento, cioè dalla presenza dell’Altro, dal desiderio dell’Altro. La soggettività hegeliana è una soggettività che non può prescindere dall’intersoggettività. Si costituisce attraverso l’intersoggettività perché se rimanesse sul piano del puro appetito, della Begierde, della pura concupiscenza, non si costituirebbe mai come un’autocoscienza. Si può costituire come autocoscienza, come vita umana, solo rispecchiandosi e riflettendosi nell’Altro. Perché io possa vedermi come sono devo passare dall’Altro, dallo specchio dell’Altro. La funzione dello stadio dello specchio viene formulata da Lacan proprio a partire da questa intuizione di Hegel: il soggetto ha necessità del riconoscimento dell’Altro per esistere.”
[4] Recalcati M, La pratica del colloquio clinico. Una prospettiva lacaniana. Raffaello Cortina ed. 2017
[5] Ware, P. (1983). Personality Adattaption (Doors To Therapy), T.A.J. vol 1